Bunuel, il Matto
Nella sua lunga e fortunata opera, o vita, Bunuel ha cercato di chiarire il sogno di un solo uomo: spiegare agli uomini, con qualsiasi mezzo, in quali molteplici trappole si può cadere. L'illusione di una vita, l'ideologia, la sessualità, la storia, la religione, il misticismo, l'inconscio... Tutte trappole che solo il genio, ovvero il folle lucido può svelare attraverso la sua Opera, al pari dell'Alchimista.
Aveva fretta Bunuel di svelare, rivelare, scoprire i segreti dell'anima, dell'inconscio, del gioco macabro dei fenomeni economico-sociali, ma anche di quelli individuali. Si dice di lui fosse un anarchico, ma più che altro lo si potrebbe definire (e questo è difficile anche ora dopo che è morto) un irriverente, un ingrato, un distruttore (anche la passione di distruggere è una passione creativa- Bakunin).
Per distruggere, il cineasta, non ha avuto bisogno di piazzare bombe o di partecipare a sanguinose battaglie per quella o contro quella bandiera, gli è bastato, con la migliore tradizione dell'Alchimia appunto, ricombinare gli elementi primari o grezzi con la speranza di raggiungere la creazione primigenia di una pura conoscenza dei fatti e dei fenomeni, che regolano la vita degli uomini e delle donne.
Di certo non possiamo illuderci di spiegare cosa accade oggi attraverso la lettura del fenomeno Bunuel, ma da esso possiamo trarre utili consigli per dimostrare le origini della stupidità umana, determinata dalle gabbie, dalle catene, dalle maschere con cui l'uomo si autoflagella ab aeternum, incapace di uscire dal girone infernale della storia (L'Angelo Sterminatore) di cui per comodità ha dimenticato errori ed orrori.
L'opera Bunueliana non può essere sezionata, classificata e archiviata. Continua a parlarci dall'alto delle sue intenzioni (nobili e generose), e dal basso delle sue passioni (infernali e terreni). E' un continuo giochi di rimandi tra assoluto e divino (Simon del desierto) e le bassezze tipicamente umane (Il fascino discreto della borghesia, L'oscuro oggetto del desiderio, Bella di Giorno). Opere che non si escludono e che da sole difficilmente comunicano l'interezza di un discorso per antonomasia complesso, impossibile. La tensione ideale e la fortuna di essere nato intelligente, fa dell'uomo Bunuel un artista che mette a disposizione degli umili e degli sconfitti, armi da utilizzare contro il nemico di sempre: l'incoscienza. Sta alla destrezza, all'abilità di chi usa queste armi fatti di segni (ne Un Chien Andalou i libri si trasformano in pistole) "far esplodere la società, cambiare la vita"(Bunuel).
"Il cinema è un'arma meravigliosa e pericolosa se è uno spirito libero a maneggiarla. E' lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell'istinto... ma possiamo dormire tranquilli, poichè la luce cinematografica è convenientemente dosata ed incatenata"(1).
Ma a chi si riferisce Bunuel, chi ha dosato e incatenato la luce cinematografica, e cosa sarebbe stato il cinema, sin dai primordi, senza queste gabbie? Si può dire che sono stati i padroni del mondo, delle coscienze, coloro che ovunque e ancora adesso agiscono, sotterraneamente o no, a trasformare un' arma meravigliosa, nell'esatto opposto: un' arma letale per quei popoli e quegli individui che sono stati volutamente relegati ad un ruolo marginale e secondario nello sviluppo della coscienza critica e pensante, ma si potrebbe dire, per estensione, anche della storia dell'umanità. Quel ruolo, sfiorando l'estremismo, ma forse anche la verità, si può attribuire allo spettatore.
La fascinazione spettacolare nasce dall'immobilità, dal lavoro passivo. E' il dualismo necessario alla perpetuazione di ogni forma di potere che in Bunuel si tenta di smascherare, mettendo lo spettatore stavolta in un ruolo di partecipante attivo.
Nell'industria dello spettacolo invece, vi è da un lato il produttore (mai come in questo caso l'impresa cinematografica è stata così onesta o semplicemente ingenua) dall'altro il consumatore (si pensi anche al consumo massiccio odierno di tanta spazzatura televisiva). Raramente l'uno accompagna nella crescita l'altro. Spesso si tende invece a far apparire il cinema, ovvero il prodotto finale, come il sogno perfetto: rivedibile e memorabile. Invece i sogni, si sa, svaniscono all'alba, e nessuno ci pensa più di tanto durante la veglia. Sembra quindi che a produrre i propri sogni ci debbano essere dei bravi registi, ed è di quei sogni che ci si innamora. Il delitto diventa quindi perfetto, il delitto della libertà s'intende, quando si fanno collimare i propri sogni, con quelli rappresentati dai film spettacolari, masturbatori, onanistici ed autistici che l'industria sforna ogni giorno. Pizze fumanti, condite da abili bagatti, per l'ingordo spettatore che ha urgente bisogno di riempire il vuoto della sua misera esistenza.
Occorrerrebbe dunque non fare cinema di qualità, ma piuttosto migliorare le condizioni di vita delle persone. Guy Debord, autore nel 1968, di un libro che fa ancora discutere "La Società dello Spettacolo", per la prima volta ha reso esplicito ed in una forma leggibile anche agli intellettuali distratti, il rapporto segreto ed intimo che intercorre tra l'iper-produzione spettacolare (anche cinematografica) e l'impoverimento della socialità degli umani, a scapito della crescita collettiva che con la pura illusione cinematografica va verso l'autodistruzione del pensiero critico e rivoluzionario. (...il mondo è gia stato filmato, si tratta ora di trasformarlo. Guy Debord).
Con Bunuel invece il sogno del cinema è smascherato, o messo a nudo. Si parla dunque apertamente dei sogni, quelli "veri", nell'estremo tentativo di rendere manifesta la doppiezza dello spettacolo, la doppiezza della vita.
Bunuel, come Pirandello, non ha fatto altro che mettere davanti allo spettatore uno specchio leggermente deformato, in cui egli avrebbe scorto il contrasto tra ciò che appare e che convenzionalmente siamo abituati a vedere (Super Io, omologazione, realtà preconfezionata) e ciò che è (l'inconscio, il caso, il caos imperscrutabile). Ma il reale è inattingibile, in quanto la vita è perennemente mutevole, in fieri, un flusso dominato dal caso. La verità pertanto non esiste se non nell'illusione di ognuno di noi. Infatti la nostra personalità non è univoca, non ha una realtà oggettiva (il doppio bunueliano, Uno Nessuno Centomila pirandelliano); al di sotto della maschera "costruzione illusoria e continua" in cui ci si cristallizza, l'anima "si muove e si fonde" in perenni trasmutazioni. Applicato alla società, il contrasto tra vita e forma diventa conflitto tra la natura umana da una parte e le convenzioni sociali dall'altra. Nell'arte questo status quo si traduce nell'umorismo- definito da Pirandello "sentimento del contrario... erma bifronte che ride per una faccia del pianto della faccia opposta"(2) - che non è la comicità fine a se stessa, ma uno strumento filosofico di conoscenza capace di cogliere criticamente le contraddizioni del reale e l'assurdo esistenziale.
L'ironia del genio spagnolo fu influenzata non poco dall'irriverenza picaresca e soprattutto dalla greguerìa (= umorismo + metafora ) inventata da Ramòn Gòmez de la Serna. Così la definisce Max Aub: "Un modo di non prendere la vita sul serio" e aggiunge "chi dice che il cinema di Bunuel è pieno di simboli non sa quel che dice: se dirà che è pieno di greguerìas dirà il vero". Non a caso una delle tante alchimie ramoniane suona così: " La luna ha una nuvola in un occhio", nell'occhio tagliato di Un Chien Andalou.
Arrivato a Parigi, Bunuel usa il viaggio (inteso come transito, sdoppiamento o come alterazione ed esplorazione di nuovi stati di coscienza) in una terra sconosciuta, con un'altra lingua, per manifestare la ricchezza del suo inconscio, elaborando nuove forme di comunicazione visiva con l'aiuto dei surrealisti. E' proprio con Salvador Dalì e il primo film con lui realizzato, Un Chien Andalou, che Bunuel sancisce ufficialmente il suo ingresso nel gruppo dei surrealisti nel 1929.
Bunuel ed il suo doppio
"Bunuel costruisce un percorso di attraversamento e di organizzazione visiva di ossessioni, figure, miti e configurazioni dell'inconscio, raccolte attorno alle strutture essenziali dell'Io: da un lato la produzione desiderante dell'Es nel suo difficile rapporto con le istanze del Super Io, dall'altro gli slittamenti sistematici di identità legati ai fantasmi" (3).
Da Un Chien Andalou, primo film, fino a Quell'Oscuro Oggetto del Desiderio (in cui compaiono addirittura due protagoniste femminili, ciascuna con la propria personalità a figurare una sola protagonista decisamente schizofrenica), Bunuel sviluppa il tema del doppio, dell'ambiguità, dell'androgino.
Ed è dal doppio che si ricava il termine dubbio. "Doppio e dubbio hanno le stesse radici come in tedesco Zweifel (dubbio) e zwei (due). Il dubbio che generandosi spezza la fiducia originaria non interrogata, nasce dal doppio di ogni realtà, dalla scoperta del suo lato umbratile accanto al suo lato solare. Questa scoperta come origine del dubbio e dell'interrogazione, segna la nascita della coscienza, il suo dibattersi tra l'uno e l'altro (4).
È lo stesso regista che dice:"Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che il dubbio sta alla base di tutti i miei film"
Dal dubbio dunque scaturisce la poetica rivelazionaria del nostro autore che nella profondità che le è propria indaga le origini della doppiezza o ambiguità, nella religione cattolica, santa e puttana, spulciando addirittura nella bibbia e scoprendo gli altarini nascosti di una ideologia ipocrita che ha generato il grande equivoco chiamato chiesa. "<Breve e triste è la nostra vita, il rimedio non sta nella fine dell'uomo, nè si conosce chi sia tornato dall'Ade. Per caso siamo nati e dopo la morte saremo come se non fossimo mai stati: fumo è il soffio delle nostre narici e la parola è una scintilla nel palpito del nostro cuore, spenta la quale il corpo diventerà cenere e lo spirito si disperderà come aura leggera. Anche il nostro nome sarà dimenticato col tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come traccia di nube e si disperderà come nebbia sospinta dai raggi del sole e dal suo calore colpita. Passaggio d'ombra è il nostro tempo e non c'è rimedio alla nostra fine, poichè il sigillo è posto e nessuno può tornare indietro. Su, dunque, godiamo dei beni presenti e facciamo uso delle cose create con ardore giovanile! Inebriamoci di vino pregiato e di profumi e non lasciamoci sfuggire alcun fiore primaverile; coroniamoci di boccioli di rose prima che appassiscano; nessuno di noi manchi alle nostre orgie, ovunque lasciamo segni di allegria, perchè questa è la nostra porzione e questa la sorte.> Per il regista si tratta del brano più bello di tutta la bibbia. L'autore di queste bellissime righe lo mette in bocca agli empi. Se no sarebbero impronunciabili. Ecco la più compiuta e sublime professione di ateismo mai elaborata nella storia" (5).
Bunuel era ateo grazie a dio, ed è con questo ennesimo paradosso che ci mette in guardia dal credere alla verità assoluta che uccide il dubbio e la complessità.
La divisione dualistica è infatti semplicistica e non convince. Sembra inadeguata a dare risposte e persino a porsi delle interessanti domande. Non convince la rigida e banalizzante divisione tra bene o male. Nulla è bene, nulla è male se non si toccano le radici. Tale e tanta è la complessità che una eventuale semplificazione emergenziale non potrebbe che nuocere alla ricerca di nuove prospettive da cui guardare, senza giudicare.
La complessità delle relazioni esistente tra le cose e le persone (la storia di ogni cosa e di ogni persona), non meritano una comoda districazione filologica o peggio un taglio netto per riprendere il filo. Ma in tutto ciò la fà da padrona la morte e la paura di essa; l' affannosa rincorsa alla sua esorcizzazione che si tramuta in gesto violento esplicitato o no, simbolizzato o no, comunque atto compiuto e giustificato in nome dell'assoluto dualista, bene-male.
Bunuel e la morte
L'umorismo disvela l'incidenza del caso sulla vita, l'eterna lotta dell'individuo contro le convenzioni sociali, l'inutile ribellione alla forma nella ricerca di una verità e di una identità possibili (utopia). Ma non c'è salvezza, non c'è espiazione. Ne "La Sequenza del Fiore di Carta" di Pasolini, Dio parla a Riccetto: E' vero tu sei innocente, e chi è innocente non sa e chi non sa, non vuole, ma io che sono il tuo Dio, ti ordino di sapere e di volere(...)Ascoltami se non vuoi perderti. L'innocenza è una colpa, lo capisci? E gli innocenti saranno condannati perchè non hanno più diritto di esserlo. Io non posso perdonare chi passa con lo sguardo felice dell'innocente tra le ingiustizie e le guerre, tra gli orrori ed il sangue. Come te ci sono milioni di innocenti in tutto il mondo, che vogliono scomparire dalla storia piuttosto che perdere la loro innocenza. E io li devo far morire".(6) Non c'è scampo, neppure per gli agnellini de L'Angelo Sterminatore. Risultato della vita: incomunicabilità, alienazione, la disperata coscienza di una vita sospesa nel vuoto. "Ogni forma è una morte" dice un personaggio pirandelliano e "conoscersi è morire". Ultima scena: la sconfitta nelle varie forme di pazzia, suicidio, solitudine, autodistruzione morale e fisica. Bunuel non ha fatto altro che filmare la realtà senza speranza, perchè così è la vita priva di libertà. Ed è per questa volontà sovversiva, per questo spirito rivoluzionario, per la libertà trasgressiva che il regista aragonese batte altre strade, diverse dagli sperimentalismi avanguardistici un pò kitsch, per anticipare la lezione di Zavattini: "La finzione spettacolare diffonde le grandi menzogne e produce una realtà falsa... Allora bisogna lottare per trasformare la realtà e non il cinema che la filma così com'è, per agirla, con coraggio, con urgenza, con entusiasmo, con una nuova concezione di solidarietà, con la lotta" (7).
"Solo così si sarebbe realizzato un cinema nuovo, perchè chi avesse filmato e chi fosse stato filmato si sarebbe scrollato dalle spalle la passività con la quale si subiscono <le grandi menzogne>" (8).
Note
1) Luis Bunuel, Il Cinema Strumento di Poesia, Scritti Letterari e Cinematografici, Marsilio, Venezia, 1996
2)Luigi Pirandello, L'Umorismo in Storia della Letteratura Italiana, Ed. Laterza, Bari, 1982.
3) Paolo Bertetto, Introduzione a Un Chien Andalou e l'Age d'Or, in Cinema d'Avanguardia in Europa, Il Castoro, Torino, 1996
4)da "La Repubblica, Umberto Galimberti, 26.05.1999.
5)Auro Bernardi, Luis Bunuel, Le Mani, Genova, 1998 cita dalle Sacre Scritture "La Sapienza 1-9".
6)P.P.P. Pasolini, Le Regole di un'Illusione, Fondo Pasolini, Roma, 1991
7)Alberto Grifi cita Zavattini, L'Esperienza degli Anni '60, in Cinema d'Avanguardia in Europa, Il Castoro, Torino, 1996
8)Alberto Grifi, Quattro Articoli Intorno al '68, fotocopie del Seminario di Regia Cinematografica tenuto a Bologna nel 1998.